RIGETTATA LA RICHIESTA DI ESTENSIONE DI FALLIMENTO IN MANCANZA DELLA RIGOROSA DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DELLA SOCIETA’ DI FATTO.
Il Tribunale di Taranto si è pronunciato su uno dei temi attualmente più dibattuti nell’ambito del diritto fallimentare.
Con decreto del 29/12/2021, la sezione fallimentare del Tribunale di Taranto è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso ex art.147 V comma del R.D. 267/1942, con il quale la Curatela di una s.r.l. chiedeva che venisse dichiarato il fallimento della società di fatto esistente tra la fallita e due soggetti, presunti soci occulti illimitatamente responsabili.
Secondo la Curatela ricorrente, questi ultimi avrebbero esercitato in proprio l’attività imprenditoriale facente solo formalmente capo alla società fallita, così gestendo i rapporti con i terzi ed utilizzando per propri scopi gli utili generati dall’azienda, dopo avere soddisfatto fornitori e dipendenti, e accumulando un ingente debito tributario e contributivo. La prova dell’esistenza della s.d.f., a parere della ricorrente, era fornita dalle dichiarazioni testimoniali rese al Curatore ed alla G.d.F. dall’amministratore/liquidatore della società di fatto e da alcuni dipendenti.
Nel corso del procedimento prefallimentare era, poi, intervenuta in adesione all’istanza della Curatela anche la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, producendo la copiosa documentazione relativa al procedimento penale contestualmente promosso nei confronti dei soci di fatto, teso ad accertare delle presunte condotte delittuose dagli stessi perpetrate nella gestione della società fallita.
I resistenti, costituitisi con il patrocinio di questo Studio, oltre a proporre una serie di eccezioni preliminari in diritto, hanno nel merito da subito contestato ogni addebito, chiedendo che la domanda di estensione di fallimento proposta nei loro confronti venisse dichiarata inammissibile, non essendo stata fornita la “rigorosa dimostrazione” dei presupposti necessari – secondo l’unanime principio della giurisprudenza di merito e di legittimità – affinché possa configurarsi una società di fatto, con conseguente pronuncia del fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili.
In particolare, questo Studio ha eccepito l’insussistenza di elementi di prova sufficienti ad accertare la costituzione di un fondo comune a favore della s.d.f., mediante conferimento di beni e servizi da parte dei presunti soci di fatto, la partecipazione di questi ultimi agli utili ed alle perdite della s.d.f., e l’affectio societatis, inteso come il vincolo tra i presunti soci finalizzato al raggiungimento dello scopo imprenditoriale prefissatosi con la costituzione della s.d.f. (cfr. Cass. n.896/2020; n.27541/2019; n.15620/2019; n.9604/2017; n.8981/2016).
Proprio in merito all’ultimo degli elementi sopra richiamati, i resistenti precisavano che il comune intento societario doveva essere conforme e non opposto a quello della società, perché, in caso contrario (ed in presenza di un interesse dei singoli soci ed in contrasto con quello della presunta società), ci si sarebbe trovati dinanzi ad un “abuso” dello strumento della s.r.l., con eterodirezione della stessa e conseguente esclusione della società di fatto.
Il Tribunale ionico, con il detto decreto del 29/12/2021, ha ritenuto di non poter accogliere la richiesta della Curatela e, in adesione, della Procura della Repubblica, in quanto dalla pur corposa attività istruttoria, svolta anche per il tramite della G.d.F., non erano emersi elementi sufficienti a provare, in conformità al rigoroso standard probatorio che l’accertamento della fattispecie di cui all’art. 147 V comma L.F. esige, gli elementi costitutivi della società di fatto.
Il provvedimento in questione segue le orme di una più che condivisibile teoria dottrinale, fatta propria anche da numerosi Giudici, secondo la quale l’esistenza della c.d. “supersocietà” e la sua situazione di insolvenza devono essere oggetto di un accertamento scrupoloso e di un prudente uso dello strumento indiziario, al fine di evitare che la fattispecie prevista dall’art. 147 V comma L.F. venga strumentalmente utilizzata al solo fine di aggirare le disposizioni degli artt. 2476 VII comma e 2497 c.c. e le difficoltà connesse all’esercizio di un azione di responsabilità a carico degli amministratori (di fatto) di una società di capitali.
La tesi difensiva, imperniata proprio sull’inammissibilità della domanda in quanto proposta in violazione del principio – cardine del nostro Ordinamento – dell’onere della prova, ha trovato pertanto accoglimento, nella misura in cui il Tribunale ha condiviso che non vi fosse prova che i resistenti avessero contribuito a costituire un fondo comune mediante propri conferimenti di beni e servizi, si fossero fatti carico delle passività e degli utili della teorizzata s.d.f. e, soprattutto, avessero agito con l’intento di conseguire degli obiettivi societari.
Al contrario, ha rilevato il Tribunale, proprio i comportamenti contestati dalla Curatela ai resistenti, ovvero di aver agito con il solo fine di causare l’irrimediabile indebitamento della società, poi fallita, nei confronti dell’Erario, privandola di ogni utilità economica, avrebbero connotato una condotta opposta a quella necessaria affinché possa ravvedersi il presupposto soggettivo dell’affectio societatis.
In conclusione, nell’affrontare lo spinoso tema dell’estensione del fallimento ex art. 147 V comma L.F., condividendo il logico ragionamento giuridico seguito nel decreto del Tribunale di Taranto, può solo aggiungersi, facendola propria, una riflessione del Prof. Fimmanò in merito all’abuso che si tende a fare di tale strumento. Quest’ultimo ha, in maniera forse colorita ma sicuramente calzante, affermato che in caso di società abusate, subornate e strumentalizzate, “l’affectio si concretizzerebbe paradossalmente nel farsi abusare nell’interesse esclusivo degli altri soci, persone fisiche, in una sorta di affectio masochista”. (F.Fimmanò in “Società di fatto ed estensione di fallimento alle società eterodirette” in “Crisi d’impresa e fallimento” 1/06/2016).
Il pronunciamento in oggetto ha affrontato, come detto, uno degli argomenti attualmente più dibattuti nell’ambito del diritto fallimentare, che vede contrapposto un orientamento minoritario che, grazie ad un’interpretazione estensiva della norma, tende ad attrarre nell’ambito di procedure concorsuali spesso infruttuose per il ceto creditorio, soggetti (e patrimoni) altrimenti dalla stessa esclusi, ad un altro (supportato da autorevole dottrina e predominante giurisprudenza di merito e legittimità) che invece riconosce all’art. 147 V comma L.F. una portata ben più ristretta, forte di un’interpretazione letterale del dettato normativo e certamente conforme alle intenzioni del legislatore.
Il decreto del Tribunale di Taranto, pertanto, grazie ad un’articolata ed approfondita disamina della fattispecie in questione, diverrà senza dubbio uno dei principali precedenti giurisprudenziali richiamati dai sostenitori dell’interpretazione autentica della norma fallimentare, così consolidando quell’orientamento che anche questo Studio ha richiamato a sostegno della propria tesi difensiva.