LA “GIUSTA” DURATA DELLE PROCEDURE DI SOVRAINDEBITAMENTO.
E’ crescente negli ultimi mesi l’attenzione che stanno ricevendo le procedure di risoluzione della crisi da sovraindebitamento, introdotte nel nostro ordinamento da oramai un decennio con la L. 3 del 27/01/2012 (c.d. legge “salva suicidi”).
A queste procedure, come è noto, possono accedere tutti i soggetti c.d. “non fallibili”, ovvero micro imprenditori, artigiani, imprenditori agricoli, professionisti e consumatori, che si trovano in una situazione di squilibrio finanziario tale da non consentire loro di fare fronte regolarmente alle obbligazioni assunte.
Anche a causa della crisi economica globale connessa all’emergenza pandemica che si protrae da oltre due anni, ulteriormente aggravata dagli eventi bellici attualmente in corso in Ucraina, sono sempre di più i soggetti che si approcciano a questi strumenti (piano del consumatore, liquidazione dei beni, accordo di composizione della crisi), colpevolmente ed inspiegabilmente sino ad ora poco utilizzati.
Ricordato che le procedure di sovraindebitamento necessitano dell’intervento di un Organismo di Composizione della crisi (O.C.C.), con l’ausilio del quale si presenta la relativa domanda al Tribunale competente per territorio, ovvero quello dove ha la residenza o la sede principale il debitore, con questo contributo si vuole porre l’attenzione su una delle criticità che l’applicazione della L.3/2012 ha posto agli operatori del diritto: la durata massima del piano di risanamento da proporre ai creditori.
La normativa vigente, anche dopo le modifiche apportate, non indica i termini entro i quali il debitore deve soddisfare – anche parzialmente – il ceto creditorio, lasciando così astrattamente ampia discrezionalità ai professionisti che sono chiamati a predisporre le proposte di risanamento; né alcuna indicazione in tal senso è contenuta nel D. Lgs. 14/2019, che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 15 luglio e sostituire la L. 3/2012
In realtà, nel vuoto normativo hanno trovato spazio, come sempre, diverse interpretazioni giurisprudenziali, più o meno estensive, che stanno generando di fatto una disparità di trattamento tra debitori più o meno “fortunati”, a seconda del Tribunale chiamato a valutare la bontà della proposta avanzata, e una certa difficoltà ai professionisti che operano in distretti giudiziari diversi.
E’ infatti usuale imbattersi in decreti di omologa per piani della durata anche superiore a 15 o 20 anni, a fronte di provvedimenti di inammissibilità per proposte che individuano un orizzonte temporale di poco superiore al quinquennio (Trib. Como 24/5/18: 20 anni; Trib. Catania 27/04/16: 20 anni, 17/5/18: 25 anni, 15/09/16: 30 anni; Trib. Napoli Nord 28/10/15: 18 anni, 21/2/19: 16 anni, 12/5/22: 16 anni; Trib. Latina 26/9/19: 9 anni; Trib. Milano 27/11/16: 7 anni; Trib. Rovigo 13/12/16: 3 anni).
La tesi più restrittiva ritiene ragionevole una durata media della procedura di sovraindebitamento contenuta in 5 anni (prorogabile a 7 anni solo in casi di particolare complessità o entità della massa debitoria), parametrandola a quella del concordato preventivo, e trovando sponda anche nella ragionevole durata del processo civile individuata dalla L.89/2001 (c.d. Legge Pinto), che prevede la responsabilità risarcitoria dello Stato in caso di procedure concorsuali della durata superiore a 6 anni. Vi è da aggiungere che, anche le prevalenti dottrine di scienza aziendalistica, considerano attendibile un piano industriale strutturato per un arco temporale non superiore a 3 o 5 anni.
Di contro molti Tribunali, come detto in assenza di una specifica disposizione normativa, si sono dichiarati propensi ad accordare tempi di esecuzione del piano molto più lunghi, sul presupposto che la ratio della norma in questione è quella di consentire al debitore di far fronte alle proprie obbligazioni secondo le proprie effettive possibilità reddituali, quindi senza che il “fattore tempo” possa incidere in maniera negativa sull’effettiva applicabilità delle misure a tutela del soggetto sovraindebitato.
In tale contrasto giurisprudenziale di merito, è intervenuta la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 27544 del 28/10/2019, con la quale, in un caso di piano del consumatore respinto perché ritenuto eccessivamente lungo, ha sancito che non può escludersi in maniera aprioristica una durata della procedura superiore ai 5 anni, se questa dilazione sia comunque più vantaggiosa per i creditori rispetto ad una ipotesi liquidatoria in via esecutiva dei beni del debitore.
In altri termini la Suprema Corte, lungi dal colmare il già evidenziato vuoto normativo, ha ritenuto di rimettere al singolo giudicante la discrezionale valutazione circa la convenienza per il ceto creditorio del piano proposto (e quindi la sua ammissibilità), a prescindere dai tempi previsti dal debitore per portarlo a compimento.
Allo stato, pertanto, permane quella situazione di incertezza e di disparità di trattamento dei debitori di cui si è fatto cenno in premessa, che spesso rende poco “appetibile” il ricorso alle procedure ex L. 3/2012, e che non trova soluzione neanche nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019), di imminente entrata in vigore.
A nostro parere, una previsione troppo stringente della durata delle procedure da sovraindebitamento rischia di castrarne l’efficacia, di cui in molti casi si è avuta concreta prova, ma, al contempo, non può ignorarsi che più si amplia l’arco temporale di esecuzione del piano e più lo stesso rischia di essere inattendibile, attesa la possibile insorgenza di eventi non ponderabili in sede di redazione dello stesso.
Pur auspicando un intervento normativo che possa dirimere il contrasto giurisprudenziale, inserito nella bulimica produzione legislativa in materia, la nostra esperienza ci induce a ritenere che sia sempre opportuno individuare la tempistica di esecuzione del piano in relazione alla natura delle obbligazioni contratte dal debitore.
Attualmente questo Studio sta affrontando davanti ad un Tribunale che aderisce all’orientamento più restrittivo un caso nel quale l’esposizione debitoria di maggiore rilevanza deriva da un contratto di mutuo ancora in essere, per sua natura di durata pluriennale, garantito da ipoteca su un immobile di valore sufficiente a soddisfare integralmente l’istituto bancario.
Al fine di ottenere una valutazione positiva della proposta, si è ritenuto di escludere il debito ipotecario dal piano, con impegno dei debitori ad onorare le rate di ammortamento contrattualmente previste (ed avviando in parallelo una trattiva con la mutuante per la rinegoziazione delle condizioni originariamente previste), ed includendo nella piano del consumatore solo le residue posizione debitorie, da soddisfare in percentuali differenti a seconda della rispettiva natura nel quinquennio successivo all’omologa.
In questo modo, da un lato si mira a garantire la soddisfazione della Banca (pagata al 100% e nei tempi dalla stessa già previsti al momento dell’erogazione del mutuo), e dall’altro si propone un pagamento vantaggioso, seppur parziale, agli altri creditori in un termine che il Giudice territorialmente competente potrà ritenere congruo, consentendo ai debitori di preservare la casa di abitazione e di estinguere la propria esposizione facendo affidamento sui redditi da lavoro attualmente percepiti. E’ innegabile che la normativa vigente, così come quella di cui si attende l’entrata in vigore, è strutturata in modo tale da consentire al soggetto sovraindebitato ampio spazio di manovra (seppur con alcuni limiti posti a tutela del ceto creditorio), così da poter ideare ed avanzare proposte quanto più confacenti alle più disparate condizioni patrimoniali e rendere efficacemente utilizzabili le menzionate procedure. Ma è altrettanto evidente che, con la proliferazione delle domande presentate in tutti i Tribunali d’Italia, urge un intervento chiarificatore che ponga fine alla lamentata discrepanza di vedute tra i diversi Uffici giudiziari.
Per saperne di più: https://www.studiopunzi.it/crisi-d-impresa/risoluzione-crisi-da-sovraindebitamento/