LA “GIUSTA” DURATA DELLE PROCEDURE DI SOVRAINDEBITAMENTO.
E’ crescente negli ultimi mesi l’attenzione che stanno ricevendo le procedure di risoluzione della crisi da sovraindebitamento, introdotte nel nostro ordinamento da oramai un decennio con la L. 3 del 27/01/2012 (c.d. legge “salva suicidi”).
A queste procedure, come è noto, possono accedere tutti i soggetti c.d. “non fallibili”, ovvero micro imprenditori, artigiani, imprenditori agricoli, professionisti e consumatori, che si trovano in una situazione di squilibrio finanziario tale da non consentire loro di fare fronte regolarmente alle obbligazioni assunte.
Anche a causa della crisi economica globale connessa all’emergenza pandemica che si protrae da oltre due anni, ulteriormente aggravata dagli eventi bellici attualmente in corso in Ucraina, sono sempre di più i soggetti che si approcciano a questi strumenti (piano del consumatore, liquidazione dei beni, accordo di composizione della crisi), colpevolmente ed inspiegabilmente sino ad ora poco utilizzati.
Ricordato che le procedure di sovraindebitamento necessitano dell’intervento di un Organismo di Composizione della crisi (O.C.C.), con l’ausilio del quale si presenta la relativa domanda al Tribunale competente per territorio, ovvero quello dove ha la residenza o la sede principale il debitore, con questo contributo si vuole porre l’attenzione su una delle criticità che l’applicazione della L.3/2012 ha posto agli operatori del diritto: la durata massima del piano di risanamento da proporre ai creditori.
La normativa vigente, anche dopo le modifiche apportate, non indica i termini entro i quali il debitore deve soddisfare – anche parzialmente – il ceto creditorio, lasciando così astrattamente ampia discrezionalità ai professionisti che sono chiamati a predisporre le proposte di risanamento; né alcuna indicazione in tal senso è contenuta nel D. Lgs. 14/2019, che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 15 luglio e sostituire la L. 3/2012
In realtà, nel vuoto normativo hanno trovato spazio, come sempre, diverse interpretazioni giurisprudenziali, più o meno estensive, che stanno generando di fatto una disparità di trattamento tra debitori più o meno “fortunati”, a seconda del Tribunale chiamato a valutare la bontà della proposta avanzata, e una certa difficoltà ai professionisti che operano in distretti giudiziari diversi.
E’ infatti usuale imbattersi in decreti di omologa per piani della durata anche superiore a 15 o 20 anni, a fronte di provvedimenti di inammissibilità per proposte che individuano un orizzonte temporale di poco superiore al quinquennio (Trib. Como 24/5/18: 20 anni; Trib. Catania 27/04/16: 20 anni, 17/5/18: 25 anni, 15/09/16: 30 anni; Trib. Napoli Nord 28/10/15: 18 anni, 21/2/19: 16 anni, 12/5/22: 16 anni; Trib. Latina 26/9/19: 9 anni; Trib. Milano 27/11/16: 7 anni; Trib. Rovigo 13/12/16: 3 anni).
La tesi più restrittiva ritiene ragionevole una durata media della procedura di sovraindebitamento contenuta in 5 anni (prorogabile a 7 anni solo in casi di particolare complessità o entità della massa debitoria), parametrandola a quella del concordato preventivo, e trovando sponda anche nella ragionevole durata del processo civile individuata dalla L.89/2001 (c.d. Legge Pinto), che prevede la responsabilità risarcitoria dello Stato in caso di procedure concorsuali della durata superiore a 6 anni. Vi è da aggiungere che, anche le prevalenti dottrine di scienza aziendalistica, considerano attendibile un piano industriale strutturato per un arco temporale non superiore a 3 o 5 anni.
Di contro molti Tribunali, come detto in assenza di una specifica disposizione normativa, si sono dichiarati propensi ad accordare tempi di esecuzione del piano molto più lunghi, sul presupposto che la ratio della norma in questione è quella di consentire al debitore di far fronte alle proprie obbligazioni secondo le proprie effettive possibilità reddituali, quindi senza che il “fattore tempo” possa incidere in maniera negativa sull’effettiva applicabilità delle misure a tutela del soggetto sovraindebitato.
In tale contrasto giurisprudenziale di merito, è intervenuta la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 27544 del 28/10/2019, con la quale, in un caso di piano del consumatore respinto perché ritenuto eccessivamente lungo, ha sancito che non può escludersi in maniera aprioristica una durata della procedura superiore ai 5 anni, se questa dilazione sia comunque più vantaggiosa per i creditori rispetto ad una ipotesi liquidatoria in via esecutiva dei beni del debitore.
In altri termini la Suprema Corte, lungi dal colmare il già evidenziato vuoto normativo, ha ritenuto di rimettere al singolo giudicante la discrezionale valutazione circa la convenienza per il ceto creditorio del piano proposto (e quindi la sua ammissibilità), a prescindere dai tempi previsti dal debitore per portarlo a compimento.
Allo stato, pertanto, permane quella situazione di incertezza e di disparità di trattamento dei debitori di cui si è fatto cenno in premessa, che spesso rende poco “appetibile” il ricorso alle procedure ex L. 3/2012, e che non trova soluzione neanche nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019), di imminente entrata in vigore.
A nostro parere, una previsione troppo stringente della durata delle procedure da sovraindebitamento rischia di castrarne l’efficacia, di cui in molti casi si è avuta concreta prova, ma, al contempo, non può ignorarsi che più si amplia l’arco temporale di esecuzione del piano e più lo stesso rischia di essere inattendibile, attesa la possibile insorgenza di eventi non ponderabili in sede di redazione dello stesso.
Pur auspicando un intervento normativo che possa dirimere il contrasto giurisprudenziale, inserito nella bulimica produzione legislativa in materia, la nostra esperienza ci induce a ritenere che sia sempre opportuno individuare la tempistica di esecuzione del piano in relazione alla natura delle obbligazioni contratte dal debitore.
Attualmente questo Studio sta affrontando davanti ad un Tribunale che aderisce all’orientamento più restrittivo un caso nel quale l’esposizione debitoria di maggiore rilevanza deriva da un contratto di mutuo ancora in essere, per sua natura di durata pluriennale, garantito da ipoteca su un immobile di valore sufficiente a soddisfare integralmente l’istituto bancario.
Al fine di ottenere una valutazione positiva della proposta, si è ritenuto di escludere il debito ipotecario dal piano, con impegno dei debitori ad onorare le rate di ammortamento contrattualmente previste (ed avviando in parallelo una trattiva con la mutuante per la rinegoziazione delle condizioni originariamente previste), ed includendo nella piano del consumatore solo le residue posizione debitorie, da soddisfare in percentuali differenti a seconda della rispettiva natura nel quinquennio successivo all’omologa.
In questo modo, da un lato si mira a garantire la soddisfazione della Banca (pagata al 100% e nei tempi dalla stessa già previsti al momento dell’erogazione del mutuo), e dall’altro si propone un pagamento vantaggioso, seppur parziale, agli altri creditori in un termine che il Giudice territorialmente competente potrà ritenere congruo, consentendo ai debitori di preservare la casa di abitazione e di estinguere la propria esposizione facendo affidamento sui redditi da lavoro attualmente percepiti. E’ innegabile che la normativa vigente, così come quella di cui si attende l’entrata in vigore, è strutturata in modo tale da consentire al soggetto sovraindebitato ampio spazio di manovra (seppur con alcuni limiti posti a tutela del ceto creditorio), così da poter ideare ed avanzare proposte quanto più confacenti alle più disparate condizioni patrimoniali e rendere efficacemente utilizzabili le menzionate procedure. Ma è altrettanto evidente che, con la proliferazione delle domande presentate in tutti i Tribunali d’Italia, urge un intervento chiarificatore che ponga fine alla lamentata discrepanza di vedute tra i diversi Uffici giudiziari.
Per saperne di più: https://www.studiopunzi.it/crisi-d-impresa/risoluzione-crisi-da-sovraindebitamento/
RIGETTATA LA RICHIESTA DI ESTENSIONE DI FALLIMENTO IN MANCANZA DELLA RIGOROSA DIMOSTRAZIONE DELL’ESISTENZA DELLA SOCIETA’ DI FATTO.
Il Tribunale di Taranto si è pronunciato su uno dei temi attualmente più dibattuti nell’ambito del diritto fallimentare.
Con decreto del 29/12/2021, la sezione fallimentare del Tribunale di Taranto è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso ex art.147 V comma del R.D. 267/1942, con il quale la Curatela di una s.r.l. chiedeva che venisse dichiarato il fallimento della società di fatto esistente tra la fallita e due soggetti, presunti soci occulti illimitatamente responsabili.
Secondo la Curatela ricorrente, questi ultimi avrebbero esercitato in proprio l’attività imprenditoriale facente solo formalmente capo alla società fallita, così gestendo i rapporti con i terzi ed utilizzando per propri scopi gli utili generati dall’azienda, dopo avere soddisfatto fornitori e dipendenti, e accumulando un ingente debito tributario e contributivo. La prova dell’esistenza della s.d.f., a parere della ricorrente, era fornita dalle dichiarazioni testimoniali rese al Curatore ed alla G.d.F. dall’amministratore/liquidatore della società di fatto e da alcuni dipendenti.
Nel corso del procedimento prefallimentare era, poi, intervenuta in adesione all’istanza della Curatela anche la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, producendo la copiosa documentazione relativa al procedimento penale contestualmente promosso nei confronti dei soci di fatto, teso ad accertare delle presunte condotte delittuose dagli stessi perpetrate nella gestione della società fallita.
I resistenti, costituitisi con il patrocinio di questo Studio, oltre a proporre una serie di eccezioni preliminari in diritto, hanno nel merito da subito contestato ogni addebito, chiedendo che la domanda di estensione di fallimento proposta nei loro confronti venisse dichiarata inammissibile, non essendo stata fornita la “rigorosa dimostrazione” dei presupposti necessari – secondo l’unanime principio della giurisprudenza di merito e di legittimità – affinché possa configurarsi una società di fatto, con conseguente pronuncia del fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili.
In particolare, questo Studio ha eccepito l’insussistenza di elementi di prova sufficienti ad accertare la costituzione di un fondo comune a favore della s.d.f., mediante conferimento di beni e servizi da parte dei presunti soci di fatto, la partecipazione di questi ultimi agli utili ed alle perdite della s.d.f., e l’affectio societatis, inteso come il vincolo tra i presunti soci finalizzato al raggiungimento dello scopo imprenditoriale prefissatosi con la costituzione della s.d.f. (cfr. Cass. n.896/2020; n.27541/2019; n.15620/2019; n.9604/2017; n.8981/2016).
Proprio in merito all’ultimo degli elementi sopra richiamati, i resistenti precisavano che il comune intento societario doveva essere conforme e non opposto a quello della società, perché, in caso contrario (ed in presenza di un interesse dei singoli soci ed in contrasto con quello della presunta società), ci si sarebbe trovati dinanzi ad un “abuso” dello strumento della s.r.l., con eterodirezione della stessa e conseguente esclusione della società di fatto.
Il Tribunale ionico, con il detto decreto del 29/12/2021, ha ritenuto di non poter accogliere la richiesta della Curatela e, in adesione, della Procura della Repubblica, in quanto dalla pur corposa attività istruttoria, svolta anche per il tramite della G.d.F., non erano emersi elementi sufficienti a provare, in conformità al rigoroso standard probatorio che l’accertamento della fattispecie di cui all’art. 147 V comma L.F. esige, gli elementi costitutivi della società di fatto.
Il provvedimento in questione segue le orme di una più che condivisibile teoria dottrinale, fatta propria anche da numerosi Giudici, secondo la quale l’esistenza della c.d. “supersocietà” e la sua situazione di insolvenza devono essere oggetto di un accertamento scrupoloso e di un prudente uso dello strumento indiziario, al fine di evitare che la fattispecie prevista dall’art. 147 V comma L.F. venga strumentalmente utilizzata al solo fine di aggirare le disposizioni degli artt. 2476 VII comma e 2497 c.c. e le difficoltà connesse all’esercizio di un azione di responsabilità a carico degli amministratori (di fatto) di una società di capitali.
La tesi difensiva, imperniata proprio sull’inammissibilità della domanda in quanto proposta in violazione del principio – cardine del nostro Ordinamento – dell’onere della prova, ha trovato pertanto accoglimento, nella misura in cui il Tribunale ha condiviso che non vi fosse prova che i resistenti avessero contribuito a costituire un fondo comune mediante propri conferimenti di beni e servizi, si fossero fatti carico delle passività e degli utili della teorizzata s.d.f. e, soprattutto, avessero agito con l’intento di conseguire degli obiettivi societari.
Al contrario, ha rilevato il Tribunale, proprio i comportamenti contestati dalla Curatela ai resistenti, ovvero di aver agito con il solo fine di causare l’irrimediabile indebitamento della società, poi fallita, nei confronti dell’Erario, privandola di ogni utilità economica, avrebbero connotato una condotta opposta a quella necessaria affinché possa ravvedersi il presupposto soggettivo dell’affectio societatis.
In conclusione, nell’affrontare lo spinoso tema dell’estensione del fallimento ex art. 147 V comma L.F., condividendo il logico ragionamento giuridico seguito nel decreto del Tribunale di Taranto, può solo aggiungersi, facendola propria, una riflessione del Prof. Fimmanò in merito all’abuso che si tende a fare di tale strumento. Quest’ultimo ha, in maniera forse colorita ma sicuramente calzante, affermato che in caso di società abusate, subornate e strumentalizzate, “l’affectio si concretizzerebbe paradossalmente nel farsi abusare nell’interesse esclusivo degli altri soci, persone fisiche, in una sorta di affectio masochista”. (F.Fimmanò in “Società di fatto ed estensione di fallimento alle società eterodirette” in “Crisi d’impresa e fallimento” 1/06/2016).
Il pronunciamento in oggetto ha affrontato, come detto, uno degli argomenti attualmente più dibattuti nell’ambito del diritto fallimentare, che vede contrapposto un orientamento minoritario che, grazie ad un’interpretazione estensiva della norma, tende ad attrarre nell’ambito di procedure concorsuali spesso infruttuose per il ceto creditorio, soggetti (e patrimoni) altrimenti dalla stessa esclusi, ad un altro (supportato da autorevole dottrina e predominante giurisprudenza di merito e legittimità) che invece riconosce all’art. 147 V comma L.F. una portata ben più ristretta, forte di un’interpretazione letterale del dettato normativo e certamente conforme alle intenzioni del legislatore.
Il decreto del Tribunale di Taranto, pertanto, grazie ad un’articolata ed approfondita disamina della fattispecie in questione, diverrà senza dubbio uno dei principali precedenti giurisprudenziali richiamati dai sostenitori dell’interpretazione autentica della norma fallimentare, così consolidando quell’orientamento che anche questo Studio ha richiamato a sostegno della propria tesi difensiva.
SOLO IL DEBITORE “MERITEVOLE” PUO’ ACCEDERE ALLE PROCEDURE DA SOVRAINDEBITAMENTO
Uno dei più frequenti ostacoli che incontriamo nell’accertare la sussistenza dei presupposti per la proponibilità di uno degli strumenti di risoluzione della crisi da sovraindebitamento, è quello legato alla “meritevolezza” del debitore, la cui negativa valutazione preclude l’omologa da parte del Tribunale della proposta di risoluzione della situazione debitoria.
Tale aspetto riguarda in special modo la casistica legata al debitore consumatore (la persona fisica che agisce per scopi estranei ad attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale), il quale, ai sensi dell’art. 7 comma II lett. d-ter) della L.3/2012 (come novellato dalla L.176/2020), non deve aver causato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode.
Il debitore imprenditore o professionista, invece, non deve aver commesso atti diretti a frodare i creditori.
E’ di tutta evidenza che il problema si pone essenzialmente nella valutazione della “colpa grave” addebitabile al consumatore, essendo di facile individuazione, al contrario, l’esistenza di atti compiuti in malafede o con intento fraudolento.
Di fronte alla discrezionalità concessa dal legislatore al Giudice chiamato ad accertare l’ammissibilità del piano del consumatore, ci si è trovati dinanzi a valutazioni discordanti tra loro, che rendono complessa l’attività preliminare del professionista chiamato ad assistere il soggetto sovraindebitato.
Va preliminarmente osservato che la finalità della Legge n.3 del 27/01/2012 è sicuramente quella di tutelare il debitore che, nonostante una condotta corretta, si trovi ad affrontare una situazione debitoria insostenibile, così da evitare gravi conseguenza di carattere sociale (la legge è chiamata di proposito “salva suicidi”), ma deve altresì riconoscersi che la norma tende anche a tutelare il mercato, consentendo al debitore “meritevole” di risolvere i problemi economici pregressi ed immettersi nuovamente nel ciclo economico.
E’ oramai principio pacifico che il piano del consumatore non può essere omologato quando il soggetto sovraindebitato abbia assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere, quindi quando abbia ricorso al credito in maniera sproporzionata rispetto alle proprie capacità reddituali.
Sarà, pertanto, considerato invece “meritevole” il consumatore che ha contratto il debito con il motivato convincimento di poterlo onorare, rimanendo, così, di fatto esente da responsabilità colui che abbia agito con colpa lieve, confidando che il proprio patrimonio e/o le proprie entrate ordinarie consentissero una regolare gestione ed estinzione della posizione debitoria.
Nella giurisprudenza di merito è condiviso unanimemente il principio secondo il quale la “meritevolezza” debba essere riconosciuta sicuramente al consumatore che sia stato colpito da un evento grave ed imprevedibile (perdita del lavoro, malattia invalidante, morte di un componente del nucleo familiare percettore di reddito, ecc.), che ne modifichi in maniera sostanziale la capacità economica.
Una discussione giurisprudenziale, invece, è in corso in presenza di indebitamento con il sistema finanziario, dove le capacità di adempiere alle obbligazioni dovrebbe essere accertata ex ante proprio dal soggetto finanziatore, il quale ha l’obbligo di valutare il merito creditizio del cliente. Secondo alcuni Tribunali, qualora tale valutazione si riveli errata a posteriori, con conseguente incapacità del consumatore di restituire quanto ricevuto, la responsabilità non può ricadere sul debitore, bensì sul finanziatore professionale. Secondo altre pronunce, invece, la valutazione positiva al momento del riconoscimento del credito, non esclude la responsabilità del consumatore per colpa grave, spettando a quest’ultimo, al più, un’azione giudiziaria tesa ad accertare l’invalidità del contratto di finanziamento, sottoscritto in violazione delle norme sull’erogazione del credito.
Di difficile interpretazione, poi, è un ulteriore orientamento giurisprudenziale, che sottopone la positiva valutazione la “meritevolezza” del consumatore in base alle cause che ne hanno comportato il sovraindebitamento: potrà, ad esempio, essere ritenuto ammissibile il piano che abbia ad oggetto le spese non sostenibili relative a spese mediche, a prescindere dalla consapevolezza ab origine di non potervi fare fronte. E’ chiaro, però, che in questo modo si attribuisce ancora maggiore discrezionalità al Giudicante, che dovrà esprimere un giudizio (per forza di cose soggettivo) in ordine alla valenza etica e morale delle cause che hanno portato alla situazione di sovraindebitamento, con conseguente minor tutela per i creditori.
Possiamo, pertanto, concludere affermando che è onere del consumatore prospettare compiutamente al Tribunale le cause che lo hanno portato al sovraindebitamento, rammentando che, per evitare una declaratoria di inammissibilità del piano presentato, pur in presenza di interpretazioni difformi tra vari Giudici, sarà quanto meno necessario che la situazione debitoria non sia sorta per evidente negligenza (oltre che per malafede o dolo) del debitore, e che quindi l’accesso alla procedura non possa configurarsi come un abuso dello strumento creato a tutela del debitore meritevole.
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10 COSE DA SAPERE SUL CONCORDATO PREVENTIVO
1) Il concordato preventivo è il principale strumento di risoluzione della crisi riservato alle imprese soggette alla declaratoria di fallimento, ovvero tutte quelle che, nei tre esercizi precedenti alla proposizione della domanda, abbiano superato anche uno solo dei seguenti parametri: attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo superiore ad € 300.000,00, ricavi lordi complessivi annui superiori ad € 200.000,00, debiti anche non scaduti superiori ad € 500.000,00. Sono esclusi, in ogni caso, gli enti pubblici e gli imprenditori agricoli.
2) Con la domanda di concordato può essere proposta ai creditori la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti mediante qualsiasi forma ritenuta utile a fronteggiare la situazione di crisi. E’ possibile, a tal fine, prevedere, ad esempio, la decurtazione della somma dovuta, la dilazione di pagamento, la cessione di beni o l’attribuzione di azioni o quote della proponente in favore dei crediti, l’attribuzione delle attività del debitore istante ad un soggetto terzo, con accollo da parte di quest’ultimo del pagamento dei debiti.
3) Il concordato preventivo può prevedere la soddisfazione dei crediti mediante la ripartizione di quanto ricavato dalla liquidazione di tutti i beni aziendali (c.d. concordato con cessione dei beni o liquidatorio), oppure mediante l’attribuzione degli utili generati dalla prosecuzione dell’attività (c.d. concordato in continuità), o, ancora, mediante l’intervento di un soggetto terzo che, in cambio dell’acquisizione dei beni aziendali, si obblighi a pagare le passività (c.d. concordato con assuntore). Nella prassi è oramai usuale la proposizione di domande di concordato che prevedono la coesistenza di diverse delle anzidette forme di soddisfazione del ceto creditorio (c.d. concordato misto).
4) La domanda di concordato preventivo va proposta al Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sua sede principale e deve essere corredata da una relazione aggiornata della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa, da un elenco analitico dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali sui beni aziendali, nonché da un piano contenente la descrizione dettagliata delle modalità e dei tempi necessari all’adempimento delle obbligazioni concordatarie. La domanda, inoltre, deve essere accompagnata dalla relazione di un soggetto terzo, il c.d. Professionista attestatore, iscritto nel Registro dei revisori legali e munito dei requisiti per essere nominato curatore fallimentare, che attesti la veridicità dei dati aziendali forniti dal debitore e la concreta fattibilità del piano proposto.
5) Il piano concordatario può prevedere che i creditori siano suddivisi in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei e ad ogni classe può essere riservato un trattamento diverso, purché ai creditori muniti di privilegio anteriore venga assicurato un trattamento migliore rispetto a quelli con grado di privilegio posteriore.
6) La legge fallimentare non prevede che la proposta debba contenere una percentuale minima di pagamento, potendosi offrire anche ai creditori privilegiati la soddisfazione non integrale di quanto dovuto, purché in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione del patrimonio aziendale. L’unico limite è quello previsto per i creditori chirografari nel concordato “in continuità”, ai quali non può essere offerto il pagamento di una percentuale inferiore al 20% dell’intero credito.
7) Dopo un esame della regolarità formale della domanda di concordato preventivo, il Tribunale nomina un Commissario giudiziale, ovvero il professionista delegato a gestire la procedura ed a supervisionare il regolare adempimento delle obbligazioni concordatarie, e fissa la data per l’adunanza dei creditori, in occasione della quale gli stessi possono esprimere il proprio voto sulla proposta ricevuta. Il concordato è approvato con il voto favorevole della maggioranza dei crediti e, in caso di presenza di classi, se tale maggioranza si verifica nel maggior numero di classi.
8) Dopo il deposito in Tribunale, la domanda di concordato viene pubblicata nel Registro delle Imprese e da tale data vige il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore, sino a quando il decreto di omologa del concordato preventivo diventi definitivo. Analogo effetto ha la pubblicazione della domanda di concordato con riserva (o “in bianco”), ovvero quella con il quale il debitore esprima la volontà di esperire la procedura di risoluzione della crisi, riservando di depositare in un termine indicato dal giudice, compreso tra 60 e 120 giorni, la proposta dettagliata, il piano e tutta la documentazione prescritta per legge.
9) Durante lo svolgimento della procedura di concordato il debitore conserva l’amministrazione dei beni e l’esercizio dell’impresa sotto la vigilanza del Commissario nominato dal Tribunale. Tutti gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (es. alienazione di beni immobili, concessioni di garanzie, mutui, transazioni, ecc.) devono essere espressamente autorizzati dal Giudice Delegato, a pena di inopponibilità ai creditori. In caso di proposta concordato con cessione di beni, la liquidazione del patrimonio aziendale viene curata da un Commissario liquidatore nominato dal Tribunale, unitamente ad un comitato costituito da tre o cinque creditori.
10) In caso di approvazione, e successiva omologa, della proposta di concordato, al Commissario giudiziale è demandato il compito di verificare il regolare adempimento delle obbligazioni concordatarie e riferire al Tribunale in caso di mancata esecuzione del piano. In caso di inadempimento del debitore, il Tribunale, anche su richiesta dei creditori, può disporre la risoluzione del concordato e, ricorrendone i presupposti di legge, dichiarare il fallimento del debitore stesso.
10 COSE DA SAPERE SULLE PROCEDURE DA SOVRAINDEBITAMENTO
1) Per sovraindebitamento si intende una situazione non transitoria di squilibrio tra le obbligazioni contratte da un soggetto ed il patrimonio disponibile per farvi fronte, tale da rendere difficile adempiere alle obbligazioni stesse, o impossibile adempiervi regolarmente (art.6 L.3/2012).
2) Se la situazione di sovraindebitamento non è causata dallo svolgimento di un’attività imprenditoriale o professionale, ma è legata alle obbligazioni contratte per esigenze di carattere personale, la procedura per porvi rimedio, disciplinata dagli artt. 12 bis e 12 ter della Legge n.3 del 27/01/2012, è quella del “piano del consumatore”.
3) Al “piano del consumatore” può accedere il debitore c.d. meritevole, che abbia, cioè, assunto responsabilmente le obbligazioni nel corso degli anni, nella fondata consapevolezza che la sua situazione economica e patrimoniale (i suoi beni e i suoi redditi) gli avrebbe consentito di far fronte ai debiti contratti. In tal caso la situazione di sovraindebitamento deve essere causata da eventi sopravvenuti ed imprevedibili (es. perdita del lavoro, malattie invalidanti, ecc.).
4) Il “piano del consumatore” può prevedere la soddisfazione dei crediti in qualsiasi forma, quali, ad esempio, il pagamento a stralcio delle somme dovute (anche in presenza di contratti di finanziamento con cessione del quinto di stipendio o pensione), la rateizzazione di quanto dovuto, la cessione di beni o crediti (anche futuri), l’intervento di un soggetto terzo quale assuntore della posizione debitoria o garante della regolare esecuzione del piano proposto.
5) Alle procedure di risoluzione della crisi da sovraindebitamento disciplinate dalla Legge n.3 del 27/01/2012 (accordo di composizione della crisi o piano di liquidazione) possono partecipare professionisti, enti, artigiani, e piccoli imprenditori non soggetti a fallimento, ovvero quelli che negli ultimi tre esercizi abbiano avuto un attivo patrimoniale di valore non superiore ad € 300.000,00 e ricavi lordi annui non superiori ad € 200.000,00, e che non abbiano un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore ad € 500.000,00.
6) Come per il “piano del consumatore”, anche per “l’accordo di composizione della crisi” la norma (art. 8 L.3/2012) prevede una forma c.d. aperta, ovvero la possibilità di soddisfare i creditori in qualsiasi modo (falcidia del credito, dilazione, cessione di beni o crediti presenti e futuri, ecc.), purchè l’accordo sia raggiunto con almeno il 60% dei creditori. La proposta di accordo può prevedere il rimborso alle scadenze convenute delle rate a scadere del contratto di mutuo ipotecario e, in caso di previsione di continuità aziendale, anche delle rate del contratto di mutuo con garanzia reale sui beni strumentali. L’accordo omologato produce effetti anche nei confronti dei creditori dissenzienti.
7) Con la procedura di liquidazione dei beni (artt. 14 ter e segg. L.3/2012), il debitore propone di soddisfare i creditori tramite la liquidazione di tutti i suoi beni, ad eccezione dei beni e crediti impignorabili e delle somme che il debitore percepisca a qualsiasi titolo (stipendio, pensione, rendite, proventi attività) nei limiti di quanto occorra al mantenimento suo e della famiglia. La liquidazione dei beni, una volta autorizzata dal Tribunale competente, viene eseguita da un professionista nominato dal medesimo Ufficio, che provvede a vendere l’attivo ed a ripartire il ricavato ai creditori.
8) Per accedere a tutte le procedure di composizione della crisi, il debitore, preferibilmente assistito da Professionista di fiducia, deve rivolgersi ad un Organismo di composizione della crisi (artt. 15 e segg. L.3/2012), costituito presso le sedi della C.C.I.A.A., gli Ordini professionali di Avvocati, Dottori Commercialisti e Notai, e presso (alcuni) Comuni.
L’O.C.C., oltre ad essere di ausilio nella fase di redazione del piano, ha il compito di attestarne la fattibilità e certificare la veridicità delle informazioni nello stesso contenute, predisponendo una dettagliata relazione da allegare alla domanda da presentare al Tribunale. L’O.C.C., inoltre, acquisisce la volontà di adesione dei creditori al piano, esegue la prescritta pubblicità e le necessarie comunicazioni, relaziona il Giudice ed i creditori, sorveglia l’esatta esecuzione del piano omologato, può essere nominato liquidatore dei beni.
9) A seguito del deposito di una delle domande di composizione della crisi da sovraindebitamento (accordo di composizione o liquidazione dei beni), il Giudice competente, valutata la regolarità formale della domanda stessa e la completezza della documentazione allegata, con il decreto di apertura della procedura dispone che sino al momento dell’omologa del piano non possano essere iniziate o proseguite azione esecutive individuali (quelle già pendenti vengono così sospese). In caso di proposizione di domanda per il piano del consumatore, invece, il Giudice competente può provvedere in tal senso quando ritiene che l’eventuale instaurazione o prosecuzione di esecuzioni individuali possa pregiudicare la fattibilità del piano.
10) L’accordo di composizione della crisi ed il piano del consumatore dopo l’omologa possono essere revocati qualora il debitore abbia dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, abbia sottratto o dissimulato una parte rilevante dell’attivo o abbia simulato attività inesistenti, nonché quando non adempia alle obbligazioni scaturenti dal piano o non costituisca le garanzie promesse.
In caso di regolare adempimento dell’accordo o del piano, invece, il debitore viene liberato dai debiti non soddisfatti integralmente. A tale beneficio può accedere anche il debitore che abbia avuto accesso alla liquidazione dei beni, ma solo quando lo stesso abbia tenuto una condotta meritevole sia prima che durante lo svolgimento della procedura, come specificato dall’art. 14 terdecies L.3/2012.
I problemi sono come scarafaggi. Se li porti alla luce si spaventano e scappano (Carlos Ruiz Zafòn)